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Nel momento in cui Cabrillo e gli altri raggiungevano l'hangar che avevano preso a nolo, il Boeing 737 era ancora sottoposto all'ispezione della dogana. Spenser aveva dato qualche segno di risveglio pochi minuti prima, così Adams aprì il portellone posteriore del SUV e gli agitò sotto il naso una boccetta di sali. Spenser scosse la testa parecchie volte, dopo di che aprì gli occhi. Adams lo aiutò a mettersi in piedi appena uscito dalla portiera della Chevrolet. Spenser restò immobile sul pavimento dell'hangar un po' malfermo sulle gambe cercando di ricordare che cosa fosse successo.
«Venga qui», gli disse Adams, guidandolo verso una sedia vicina a un banco da lavoro e facendolo accomodare.
Con l'aiuto di Kevin Nixon, Cabrillo stava innalzando la rampa estensibile per scaricare la cassa che conteneva il falso Buddha. Nixon era arrivato all'hangar già da parecchie ore durante le quali aveva fatto i preparativi necessari.
«Tutto pronto?» gli chiese Cabrillo.
«Sì, signore», rispose Nixon mentre afferrava un lato della cassa. Poi i due uomini la fecero rotolare verso il carrello di metallo. Quando si fu arrestata, la raddrizzarono e ripiegarono la rampa, chiudendola in due sulle cerniere, per poi infilarla di nuovo sul SUV.
«Ci sono i vestiti?» si informò Cabrillo.
«Mi sono fermato all'hotel mentre venivo qui. Le borse erano già chiuse.»
«'I migliori progetti di uomini e topi...'» citò Cabrillo, poi, seguito da Nixon, andò dove era seduto Spenser.
Il mercante d'arte lo fissò. «C'è qualcosa di familiare in lei», disse quasi al rallentatore.
«Non ci siamo mai incontrati», fu la fredda risposta di Cabrillo, «ma so un sacco di cose sul suo conto.»
«Chi siete?» domandò Spenser scuotendo la testa come per scacciarne la nebbia. «E che cosa volete da me?»
Adams era in piedi a poca distanza da Spenser. Sebbene il suo aspetto non lo facesse apparire minaccioso, Spenser era sicuro che se avesse tentato di opporglisi non sarebbe andato lontano. Cabrillo si portò esattamente di fronte al mercante e invase il suo spazio, poi fissò gli occhi in quelli di Spenser e gli parlò con estrema calma.
«In questo preciso momento lei non è in una buona posizione, quindi faccia silenzio e mi ascolti. Ad alcuni chilometri da qui c'è un miliardario asiatico furibondo perché è convinto che lei gli abbia truffato duecento milioni di dollari. E contrariamente a quanto lei forse può pensare, non è una persona perbene; ha fatto carriera come corriere della droga per una triade asiatica, e sebbene ora abbia dato una patina di legittimità alle sue azioni, ha ancora delle conoscenze nel giro. Posso immaginare che costui abbia già fatto qualche telefonata, e che mentre parliamo tutti i criminali del Paese stiano cercando proprio lei.»
«Chi è lei per...» cominciò a dire Spenser.
«Ma allora non mi sta a sentire», lo rimbeccò aspramente Cabrillo. «Noi sappiamo che ha scambiato i due Buddha e che stava per rivendere l'originale. Se collabora, le offriremo la possibilità di scappare. Altrimenti faremo ugualmente lo scambio e poi telefoneremo a Ho per dirgli dove la può trovare. Come si dice, lei non ha scelta.»
La mente di Spenser entrò freneticamente in funzione. Senza la vendita del Buddha era rovinato. Ma non appena avesse cominciato a circolare voce su quello che aveva tentato di fare lì a Macao, la sua carriera come mercante d'arte sarebbe finita. La sua unica speranza era cambiare identità e sparire. Fuggire in qualche luogo lontano e cominciare una nuova vita.
Non aveva davvero scelta.
«Non posso scappare senza documenti. Mi può essere d'aiuto a tal proposito?»
Cabrillo l'aveva in pugno e lo sapeva. Adesso aveva solo bisogno di tirare il suo pesce in barca. «Kevin», disse, «sei in contatto con la nave?»
«Sì, signore», rispose Nixon.
«Ottimo. Allora spara al signor Spenser per conto mio.»
«Con vero piacere», rispose Nixon.
L'ultimo traghetto da Hong Kong rallentò in prossimità della riva e il capitano cominciò a manovrare i propulsori per allineare l'imbarcazione al molo. A prua un uomo che indossava mocassini Cole Haan lustri come uno specchio, un paio di pantaloni leggeri di lana e una camicia di seta e cotone era in attesa dello sbarco. Aveva capelli lunghi e ondulati e la cravatta infilata nel colletto della camicia era di finissima seta. A sapere dove guardare, sia pure con qualche difficoltà si potevano scorgere i segni di un lifting, ma bisognava osservare da vicino, perché era stata un'operazione costosa e accurata. A parte il fatto che l'uomo era spossato per il volo dall'Indonesia a Hong Kong e per la lunga giornata che aveva dovuto affrontare, nella sua persona non si sarebbe notato assolutamente nulla di strano.
L'uomo aveva quarantacinque anni, ma ne dimostrava dieci di meno.
Guardava i marinai che fissavano le gomene, tutti uomini giovani e robusti, cosa che non gli dispiaceva. Amava il look etnico e godeva delle passioni dei giovani uomini. Nel Paese dove risiedeva, cercava compagni di origine latina; ce n'erano molti nel posto da dove veniva, e fortunatamente anche loro sembravano attratti da lui. In tutta onestà, in quell'istante avrebbe preferito essere a casa, a tentare approcci nelle strade ripide della città in cerca di amore e di lussuria. Ma non si trovava là. Era a migliaia di chilometri da casa e aveva un lavoro da svolgere. Sorrise a uno dei marinai mentre gli passava accanto, però l'uomo non restituì il saluto. Lentamente, la rampa di prua del traghetto venne calata.
Insieme con i pochi altri passeggeri di quella corsa così a tarda ora, egli dovette incamminarsi per una leggera salita e poi oltrepassare una porta con la scritta ALTRE NAZIONALITÀ. Consegnò il passaporto e aspettò di ricevere l'autorizzazione per l'ingresso a Macao. Dieci minuti dopo stava lasciando l'edificio facendo segno a un taxi. Poi aprì un telefono satellitare e controllò la posta elettronica.
Sulla Oregon Max Hanley stava schiacciando un sonnellino. Teneva i piedi appoggiati su una scrivania nella sala di controllo e la testa abbandonata da una parte sulla poltrona. Uno degli operatori gli posò la mano su una spalla e lui si svegliò all'istante.
«Signore, credo che ci sia un problema.»
Hanley si sfregò la faccia, poi si alzò, andò alla caffettiera e si versò una tazza di caffè. «Ti ascolto», disse.
«È stata segnalata una persona appena transitata dall'ufficio immigrazione di Macao.»
La Corporation aveva un nutrito database sui propri computer. Nel corso degli anni vi erano stati inseriti i nomi di molte persone e quando qualcuno di questi saltava fuori in uno dei numerosi sistemi nei quali la Corporation penetrava, l'informazione era esaminata e analizzata. Hanley prese un sorso di caffè e poi lesse il foglio che l'operatore gli porgeva.
«Avevamo considerato questa possibilità», disse Hanley in tutta calma, «e adesso lui è qui.»
Nixon si avvicinò a Spenser, mirò alla testa e premette il pulsante.
Poi guardò l'immagine nella camera digitale.
«Può farsi crescere baffi e barba?» volle sapere Cabrillo.
«I peli sono radi», ammise Spenser.
«Che cosa abbiamo per farlo apparire diverso?» chiese Cabrillo a Nixon.
Nixon si avvicinò al banco e andò a frugare in una scatola che conteneva travestimenti. «Capelli, trucco e protesi dentarie. Quanto lontano vuole andare?»
«Quando sarà diventato un'altra persona», disse Cabrillo, «dove progetta di nascondersi?»
Spenser rifletté. Da un lato non aveva interesse che qualcuno conoscesse la sua destinazione definitiva, dall'altro, per quanto aveva visto finora, quella gente lo avrebbe trovato in ogni caso.
Cabrillo approvò con un cenno. «Dunque una leggera abbronzatura, baffi in tinta di lunghezza media, niente di eccessivo, e capelli appena più lunghi», annunciò a Nixon, che fece segno di sì e cominciò a togliere alcuni articoli dalla scatola.
«So dal suo dossier che non parla né spagnolo né portoghese, così se fossi in lei sceglierei l'Uruguay o il Paraguay, dove il suo accento inglese non spiccherà così tanto.»
Si unì a loro anche Monica Crabtree. «Perché Kevin non gli fa fare il canadese?»
Cabrillo si illuminò. «Ecco la soluzione. Lei effettuerà lo scambio per noi, e noi le costruiremo una nuova identità. Diventerà un canadese immigrato in Paraguay alcuni anni fa che ha ottenuto la cittadinanza. Le daremo un forfait di un milione di dollari per ricominciare da capo e un biglietto aereo da Hong Kong ad Asuncion. Che cosa farà poi sarà affar suo e buona fortuna.»
«La polizia mi fermerà se cercherò di lasciare Hong Kong con un milione in contanti», obiettò Spenser, che cominciava a nutrire una certa speranza.
«Ci penseremo noi. Adesso scelga un nome.»
Nixon intanto si era avvicinato e cominciava ad applicare il travestimento.
«Norman McDonald», propose Spenser.
«Norm McDonald, aggiudicato», approvò Cabrillo.
Tiny Gunderson stava osservando i funzionari della dogana che ispezionavano il 737, quando il suo cercapersone prese a vibrare. Se lo tolse di tasca e lesse il messaggio. Lo imparò a memoria, poi lo cancellò e si rimise l'apparecchio in tasca. Gli agenti della dogana gli si avvicinarono, firmarono un foglio e lo consegnarono al pilota.
«Adesso ci porteremo alla rampa d'accesso per il rifornimento», comunicò il pilota ai funzionari, i quali assentirono e scesero dall'aereo. La scaletta venne ritirata e l'operatore la allontanò.
«Chiudi il portello», ordinò il pilota a Gunderson. Poi prese per la pista bagnata.
Trenta minuti dopo il 737 era rifornito e parcheggiato in un vasto hangar a pochi metri da dove Cabrillo e la sua squadra erano in attesa. Il magnate del software digitò un numero sul suo telefono satellitare.
Hornsby, Meadows e Jones si fermarono per riprendere fiato.
Lungo tutte le pareti del canale di scolo le condotte di metallo e di cotto stavano riversando acqua nel corso principale. C'erano già venti centimetri d'acqua sul fondo del canale che era punteggiato qua e là di mozziconi di sigarette, di pezzi di carta e degli scarti del mondo sopra le loro teste.
«È salita di qualche centimetro in pochi minuti», disse Meadows.
Hornsby stava scrutando la mappa alla luce del suo casco da minatore.
Segnò il percorso e poi diede un'occhiata alla bussola. «Non penso che l'acqua salga così velocemente, ma non c'è ugualmente da stare allegri.»
Jones si guardava intorno in quel cunicolo sovraffollato. Non gli piaceva trovarsi in spazi angusti e voleva uscire al più presto. «Da che parte dobbiamo andare, Horny?»
«Prendiamo per il corridoio a sinistra.»
All'interno della sala di controllo, sulla Oregon, Max Hanley stava osservando un'immagine radar del tempo. Un agglomerato di nubi, con al centro un'area rossa poco rassicurante, stazionava sul tratto di mare tra Hong Kong e Macao.
«Mostrami lo sviluppo», ordinò a un operatore.
L'uomo digitò dei comandi al computer e l'immagine si mosse in un'onda lenta e ampia verso ovest. Alla velocità attuale il centro della tempesta sarebbe passato sopra Macao intorno alle quattro di mattina. In qualche momento all'ora di colazione la coda avrebbe raggiunto il continente cinese e il tempo sarebbe migliorato. Ma fino ad allora solo pioggia.
«Eddie», chiamò Hanley, «credo che dovrai portare una squadra in quella galleria.»
Eddie Seng era il tuttofare della Corporation. Aveva servito nei corpi di ricognizione dei marine, aveva fatto da punta avanzata in non pochi progetti della Corporation ed era dotato dell'innato talento di volgere al meglio le situazioni negative. Finora Cabrillo e Hanley l'avevano tenuto ai margini dell'operazione. Era il loro uomo di riserva in caso di imprevisti, e lui aveva una gran voglia di partecipare al gioco.
«Ho bisogno di un paio di Zodiac, e di un sistema per rintracciare gli uomini se l'acqua continua a salire», fu la richiesta di Seng.
«Murphy, Kasim e Huxley», chiamò subito Hanley. «Farò trovare io i gommoni pronti con tutto l'equipaggiamento necessario. Metti insieme la squadra e poi vieni di nuovo qui da me.»
Seng uscì subito dalla sala di controllo.
«No comment», urlò Sung Rhee sbattendo giù il telefono.
I reporter dei giornali locali avevano fiutato che stava succedendo qualcosa, però non sapevano che cosa. L'ospedale era pieno di invitati provenienti dalla festa di Ho, tuttavia a mano a mano che gli effetti della droga svanivano erano dimessi a uno a uno. La causa ufficiale del malore era ascritta all'avvelenamento da cibo, ma la copertura era piuttosto inconsistente e qualcuno avrebbe ben presto squarciato il velo di quella menzogna. Si facevano indagini sui sequestri: i reporter lo avevano appreso dalle frequenze radio della polizia. Il furto al tempio di A-Ma, la Peugeot in fiamme, l'incendio alla sfilata: tutto era accaduto sotto l'occhio attento dei giornalisti. Solo la casa di Stanley Ho era off limits per loro perché il padrone, una volta che se ne erano andati tutti, aveva chiuso le porte agli estranei.
L'indomani mattina Rhee sarebbe stato costretto a rilasciare un commento.
Il telefono squillò di nuovo. Era l'ispettore Po.
«I rottami del carro si stanno raffreddando, ma non ci siamo ancora avvicinati abbastanza per ispezionare i resti. La mia idea è che i due siano bruciati nell'incendio.»
«Avete tenuto sotto osservazione il carro per tutto il tempo?» chiese Rhee.
«Sì, signore.»
«Allora trovatemi dei denti, e oro fuso.»
«Sì, signore.»
Po guardava i pompieri ancora intenti a lanciare getti d'acqua sull'ammasso contorto di metallo. Nel giro di un'ora avrebbe potuto fare un'ispezione fra i rottami. Nel frattempo il furto subito da Ho sarebbe stato al centro dell'attenzione, ma da qualche parte a Macao c'era un altro Buddha d'oro, e Po intendeva trovarlo.
«Ci siamo accordati per un pagamento in contanti», disse Spenser in risposta alla domanda di Cabrillo.
Monica Crabtree era sulla linea protetta della Oregon. Prese nota su un foglio, poi chiuse la conversazione. «Presidente, credo che dovresti dare un'occhiata a questo.»
Nixon stava impostando al computer i nuovi documenti di Spenser. Una volta terminato di preparare la presentazione di base, digitò INVIO e il file fu trasmesso alla Oregon dove c'era una scorta di passaporti, carte di credito e documenti di immigrazione in bianco. Qualcuno a bordo avrebbe stampato il materiale e l'avrebbe di nuovo inviato all'hangar.
Cabrillo lesse le note e le riconsegnò a Crabtree. «Falle a pezzi.»
Tom Reyes stava guidando a rotta di collo, con Franklin Lincoln seduto al suo fianco. Lincoln lesse le destinazioni dei taxi, poi guardò fuori dal parabrezza ancora una volta. «All'arrivo dei traghetti sono stati mandati tre taxi, i numeri dodici, uno-ventuno e quarantadue.»
«Da quanto ho ascoltato sulle frequenze radio», replicò Reyes, «il quarantadue ha già scaricato il suo cliente all'hotel Lisboa e il numero dodici sta percorrendo Nuova Strada. Quindi deve essere a bordo dell'unoventuno. Il tassista ha chiamato il suo garage per riferire che era diretto all'Hyatt Regency su Taipa e che doveva aspettare il suo cliente per riprenderlo a bordo e continuare la corsa.»
Reyes guardò sul ponte che conduceva a Taipa. «Chiama Hanley e spiegagli la situazione.»
Lincoln accese la ricetrasmittente e riferì alla sala di controllo.
«Datemi un paio di minuti», replicò Hanley. «Entra nel computer dello Hyatt e cerca questo nome», ordinò poi, porgendo un foglio a Eric Stone, uno degli operatori. «Dammi il numero di stanza.»
Le mani di Stone danzarono sulla tastiera; un secondo più tardi l'uomo si rivolse a Hanley. «Che tempismo», commentò, «sta facendo adesso il check in.» Poi aspettò finché i dati riempirono lo schermo. «Camera ventidue-quattordici», disse.
«Hyatt Regency, camera ventidue-quattordici», Hanley comunicò a Lincoln, «e fate presto a prenderlo: se ha chiesto al taxi di aspettare, significa che vuole andare subito all'aeroporto.»
«Ricevuto», disse Lincoln. «Poi cosa facciamo?»
«Portatelo qui.»
Reyes prese il viale che conduceva allo Hyatt Regency.
«Camera ventidue-quattordici. Lo prendiamo e lo portiamo sulla Oregon», annunciò Lincoln.
Reyes fermò la macchina e parcheggiò. «Hai dei soldi?»
«Sì, per cosa?» volle sapere Lincoln.
«Per il taxi», rispose Reyes indicando il veicolo. «Pagalo e digli che può andarsene. Ci troviamo al ventiduesimo piano.»
Michael Talbot pagò il fattorino dell'ascensore, poi chiuse la porta. Era atteso all'aeroporto a minuti, ma si sentiva sporco e quindi decise di fare una doccia veloce. Si svestì, entrò in bagno e regolò l'acqua.
Tom Reyes si frugò nel portafogli ed estrasse un passe-partout. Lo infilò nella guida e attese fino a che la luce divenne verde, poi aprì lentamente la porta. In un primo tempo pensò che nella stanza non ci fosse nessuno, poi però sentì scorrere l'acqua della doccia. Stava chiudendo la porta, quando sentì dei passi che si avvicinavano nel corridoio. Sbirciò fuori e vide Lincoln. Si portò un dito alle labbra e gli fece segno di entrare.
«Barrett», chiese Hanley, «ti hanno insegnato a cavartela nel Magic Shop?»
«Sì, ci ho già lavorato.»
«Allora scendi e scalda la macchina del lattice.»
«Immediatamente, capo», disse Barrett prima di uscire di gran carriera dalla sala di controllo.
Talbot si stava asciugando e intanto decideva che cosa indossare. Uscì dal bagno ed entrò in camera da letto. Un uomo robusto, di colore, era seduto al tavolo. Quella vista lo sorprese a tal punto che la sua mente per un secondo fu incapace di elaborare l'informazione.
Poi, dalla parte della porta, una mano gli premette sulla bocca. Si trovò scaraventato a faccia in giù sul letto, la fronte schiacciata contro la coperta.
Dopo di che fu rapidamente imbavagliato e gli fu applicata una benda sugli occhi mentre le gambe e le braccia venivano legate con funi di plastica.
Gli infilarono dei tappi nelle orecchie. Lui non poté sentire Reyes che diceva a Lincoln: «Vado a cercare un menu del servizio in camera. Tu aspetta qui».
Lincoln fece segno di sì e accese il televisore, tanto il loro prigioniero non sarebbe andato da nessuna parte. Era disteso e legato, senza poter muovere un muscolo, come un tacchino il giorno del Ringraziamento. Otto minuti dopo Lincoln e Reyes, senza dar troppo nell'occhio, l'avevano già fatto uscire da un ingresso sul retro dell'albergo, poi l'avevano caricato in macchina spingendolo sul sedile posteriore.
«Ho fame», saltò su Reyes avviando il motore.
«Non fai altro che ripeterlo...» lo rimbeccò Lincoln.